Da qualche mese mi trovo a rileggere I segni addosso, libro sul rapporto tra potere e violenza, sulla tortura, edito da BeccoGiallo e curato da Studio RAM.
Mi piace il distacco-attaccato che c’è tra parole e disegni. Nel senso che sia le parole, sia i disegni e il loro insieme nella sceneggiatura risuonano di vibrazioni singole ed intensissime mantenendo un’armonia piena di buchi, di abissi nel quale la mente sprofonda.
Il processo che subisce la mia mente si adatta bene al segno e ai disegni del libro di Elena Guidolin. Per questo ho voluto intervistare lei. E anche per una vicinanza anagrafica che mi incuriosiva. Insomma, una volontà di confronto e di conoscenza per capire come lei raccontasse i suoi disegni, il suo segno e il progetto de I segni addosso.
Qual è stato il tuo primo pensiero quando ti hanno proposto questo progetto? Ti sei chiesta quale vantaggio potesse avere l’uso della lingua del fumetto?
“Ho accolto la proposta con entusiasmo ma anche con preoccupazione. Poter lavorare su un tema come la tortura significava, da un lato, continuare un discorso sul Potere e il suo esercizio (soprattutto sul corpo) che avevo già cercato di affrontare in lavori precedenti – e che, in generale, mi interessa. Dall’altro lato, mi sono chiesta come, e se, sarei riuscita a evitare una certa morbosità dello sguardo, a rendere conto delle ambiguità, evitando il più possibile soluzioni superficiali e semplicistiche. Credo che il linguaggio del fumetto sia, in ogni caso, tra i più adatti ad affrontare certe tematiche. È un linguaggio ibrido e complesso che gioca con l’immagine e la parola, riuscendo a sfuggire, nel contempo, al ʹpregiudizio mimeticoʹ di cui spesso soffrono cinema o fotografia”.
Interpretare con il tuo segno la narrazione, questo tipo di racconto, quali emozioni e pensieri ti ha provocato?
“A un certo punto mi sono trovata a pensare che stavo raccontando la violenza con un segno violento; stavo restituendo corpi e gesti con brutalità, seppure spinta da un rispetto, o una responsabilità, nei confronti di ciò di cui stavo parlando. Il pensiero costante era certamente quello di evitare la trappola del compiacimento morboso. Soprattutto, però, mi sono sentita ambigua e ho sentito questa ambiguità come necessaria: come è pericoloso indulgere sulla violenza perpetrata, spettacolarizzandola, così credo sia l’auto-assolversi, giudicare il ʹmostroʹ allontanandolo da sé”.
A proposito dei segni che lascia la tortura, il senso di depersonalizzazione e inumanità, come hai adattato il tuo stile di disegno/segno alla narrazione?
“La tortura svuota e depersonalizza ma, allo stesso tempo, credo sia qualcosa di profondamente, estremamente umano. Intacca l’intimo, in tutti i sensi. Ho provato a ragionare, quindi, più sul segno che sul ʹdisegnoʹ, con risultati astratti ma che avessero carnalità, funzionassero come indici, tracce vive”.
Per te è stata più importante la narrazione, il suo procedere lineare e cronologico oppure la rappresentazione del paesaggio interno dei personaggi?
“Pur seguendo la sceneggiatura di Andrea (Antonazzo n.d.r.), ho cercato di inserire nel racconto delle ʹnarrazioni obliqueʹ, usando elementi ricorsivi e simbolici per costruire un’atmosfera – un’attesa, un soffocamento – più che per rappresentare dei fatti. In questo senso, gli ambienti entro cui si inquadrano le vicende e si muovono i personaggi potrebbero funzionare, sì, come una sorta di ʹteatro interioreʹ: sono spazi ʹabitatiʹ, nei termini di un gioco continuo tra interno ed esterno”.
Il tema della memoria: quanto è importante ricordare alcuni fatti, quelli soprattutto oggetto delle storie che hai disegnato per I segni addosso?
“La memoria è importante ma solo, credo, se intesa come memoria storica: qualcosa che si pone delle domande, crea connessioni e cerca delle risposte, anche parzialissime. È invece pericolosa quando – come scrive Daniele Giglioli in Critica della vittima – si fa ʹcommemorazioneʹ vuota, isolando i fatti dal loro accadere per disinnescarli. Posto in questo senso, il problema della ʹmemoriaʹ è ancora più importante in casi come quelli del G8 di Genova o di Abu Ghraib: è passato troppo tempo perché siano ancora ʹd’attualitàʹ e troppo poco perché diventino Storia. Mi piace pensare che I segni addosso possa fare da innesco per iniziare una riflessione in questo senso”.
Marco Ficarra ha scritto nell’introduzione che le storie sono messe in scena in modo teatrale: pensi che nel libro grazie a questo i lettori riescano a prendere coscienza del problema della tortura e in qualche modo possano raggiungere quindi una catarsi o almeno di riflessione sul rapporto tra potere e violenza?
“L’idea di Andrea di trattare le vicende come atti di una pièce teatrale – introdotti e conclusi da un prologo e un epilogo, con protagonista una maschera muta come unica voce – è perfetta, secondo me, per evitare un trattamento troppo didascalico del tema e portare chi legge non tanto a soffermarsi sui singoli accadimenti, quanto a ragionare sulle dinamiche profonde che li muovono. In generale, credo che ‘raccontare una storia’ voglia dire questo: mantenere uno sguardo vigile sul reale, trasformandolo, dissezionandolo per arrivarne al cuore”.
Anche tu hai vissuto da vicino almeno una delle tre storie che hai disegnato, quella sui fatti di Genova, cosa ricordi di quei giorni, come li hai vissuti? Hai fatto uso di quelle sensazioni quando hai preso a disegnare?
“Nel 2001 avevo sedici anni, mi piacevano i CCCP e i Joy Division e pensavo di essere punk – cosa assolutamente non vera. Non ero a Genova in quei giorni, ma ricordo di averli passati davanti alla tv in cerca di una spiegazione. Mi ricordo molta tristezza. Una pena sorda, non so come definirla altrimenti. Prima di iniziare a disegnare ho rivisto documentari, film, riletto vecchi articoli, raccolto vecchie foto. Soprattutto, mi sono messa a riascoltare Affinità e divergenze”.
Cosa pensi dell’opportunità di introdurre il reato di tortura anche in Italia? Ti sei mai data una spiegazione del perché il nostro Paese sia ancora indietro rispetto a questo tema?
“La mancata introduzione del reato di tortura in Italia è gravissima. Credo sia una questione complessa che coinvolge molti aspetti. Primo fra tutti, la mai realizzata ʹresa dei contiʹ con il fascismo – cioè con ciò che è stato e continua a significare. Non penso tanto al fascismo in camicia nera e saluto romano sempre pronto, quanto a una più generale, e pervasiva, tendenza a un pensiero di destra, che si nutre di frasi fatte, sole iniziali maiuscole, arabeschi e omissioni. C’è, forse, quella cosa che qualcuno ha chiamato familismo amorale; la mancanza di una visione, di una volontà politica (in senso lato) inclusiva, responsabile e a lungo termine”.
Io non ho soluzioni, non ho pensieri politici o rivoluzionari risolutivi sulla tortura. Penso però che parlare e confrontarsi, conoscere sia sempre necessario. Non è che chiudendo gli occhi il mondo sparisca. E non credo si viva neppure più sereni.
Per questo la presentazione de I segni addosso può essere qualcosa di molto più grande di una presenza, di una lettura. Può essere l’occasione per capire, per informarsi, per riflettere.
Per cambiare?