Qualcosa s’è mosso è una graphic novel per adulti d’ispirazione autobiografica. Il racconto è suddiviso in quattro capitoli, ciascuno dei quali incentrato su una giornata topica della vicenda del protagonista e caratterizzato da uno specifico colore ambientale.
Rosario, un giovane ragazzo siciliano, è costretto a mettere da parte le proprie aspirazioni più autentiche per sanare i debiti della famiglia, per cui si trova a impegnarsi in lavori miserabili. Il burrascoso rapporto con il padre da conflitto intimo diviene ben presto sfida alla terra d’origine, bella ma maltrattata, e alla cultura patriarcale che la paralizza fuori dal tempo. Rosario è determinato a salvarsi e decide di partire: la sua ricerca di libertà lo porterà prima a Torino, dal fratello Angelo, e poi a Bologna, dove troverà l’amore e riuscirà a diplomarsi… ma l’ombra delle sue origini si stende sull’Italia, minacciando di vanificare le sue conquiste umane e culturali.
Il libro è un’autobiografia anche se il nome del protagonista è Rosario. Quanto lo scrivere di sé ha influenzato il flusso di creazione?
Devo dire parecchio. Per me il fumetto ha sempre rappresentato il medium ideale per dare corpo alle mie necessità espressive più autentiche. Nella maggior parte dei miei lavori ho sempre inserito un pezzo di me, di persone, fatti o pensieri che, in positivo o in negativo, mi hanno riempito la vita e in qualche modo determinato. Questo processo si verifica spesso in modo inconsapevole, ne prendo coscienza a posteriori, per così dire quando ‘riemergo’: e allora eccolo lì, lo vedo, quel qualcosa pulsante di me che si mostra all’improvviso ai margini di una storia, latente, implicito, ma in grado di donarle un imprevisto spessore.
Diversamente, in Qualcosa s’è mosso l’aspetto autobiografico è il presupposto stesso della narrazione, motivo per cui il suo processo di sviluppo non poteva che calibrarsi su un piano di lucidità. Se poi si considera che le vicende narrate e le tematiche entro cui queste si inseriscono hanno costituito per me motivo di profonda riflessione già prima della narrazione autobiografica, anzi, a prescindere da essa, è chiaro che apprestandomi a metter mano a Qualcosa s’è mosso ero più che mai presente a me stesso.
Perché questo titolo? Quando hai deciso che il volume doveva chiamarsi così?
Ho scelto il titolo solo all’ultimo, precisamente quando è arrivato il momento di presentare il materiale per il copertinario a Becco Giallo. Mi sono arrovellato su diverse soluzioni, ipotizzando anche il ricorso al dialetto siciliano, ma la maggior parte non mi convincevano affatto. Il punto di svolta è arrivato grazie al confronto finale con la mia editor, Alice Milani, che fin dall’inizio ha compreso appieno lo spirito del mio lavoro, ponendomi quesiti chiave puntuali, tanto riguardo l’aspetto grafico quanto quello contenutistico. Anche per il titolo la sua opinione si è rivelata di grande aiuto. Dopo aver scartato l’uso del siciliano (che, per quanto affascinante, avrebbe rischiato di respingere le persone che non lo conoscono), abbiamo infine concordato che il titolo Qualcosa s’è mosso – che avevo inizialmente pensato come titoletto di apertura di uno dei quattro capitoli in cui è suddivisa la storia – si prestava perfettamente a rappresentare la storia per intero. La vicenda prende avvio da un paesino siciliano in evidente stato di decadenza, in cui tutto sembra pervaso da una risoluta vocazione all’immobilità e in cui ogni mutamento pare impossibile. La frase Qualcosa s’è mosso implicava questo immobilismo, ma al contempo proponeva un’apertura, uno spiraglio di speranza, esatta mente quello che volevo comunicare. Forse sì, qualcosa può cambiare, e il germe di questo cambiamento è custodito innanzitutto dallo sguardo del protagonista migrante, che inizia a guardare il suo passato come mai aveva fatto prima, cioè da lontano.
Quali sono state le difficoltà principali?
Riuscire ad attribuire un ordine organico a quello che era inizialmente un flusso emotivo di ricordi ed emozioni non è stata un’operazione semplice e tantomeno immediata, soprattutto considerando l’obbiettivo principale che muove ogni fumettista: rendere il tutto ‘sceneggiabile’. Ciò che più mi ha impegnato è stata la definizione del tono generale della storia e quella della struttura portante su cui organizzarne i contenuti.
Ho notato che le storie di formazione ispirate a eventi autobiografici sono spesso caratterizzate da un tono mesto, dolcemente pacato, in gran parte ottenuto grazie a una scansione ritmica degli eventi lenta e dilatata. Questa caratterizzazione, così vicina a tradurre il sentimento della malinconia, è forse inevitabile, dato che penso sia proprio la malinconia a conquistare tutti noi, fumettisti e non, nel momento in cui ci volgiamo a ripercorre il passato e le età che questo ha portato via con sé.
Per Qualcosa s’è mosso ho preferito evitare questo tono, ritenendo che le vicende che mi apprestavo a raccontare ne richiedevano uno del tutto diverso, essenzialmente più piatto e crudo, quasi straniante. Sono dunque ricorso a una struttura per capitoli, ognuno dei quali presenta una vicenda che, pur svolgendosi nell’arco di una sola giornata, co stituisce un momento chiave per l’evoluzione del protagonista. Il flusso narrativo spezzato che ho così ottenuto penso possa favorire un’immersione del lettore immediata, aggressiva, piuttosto che un suo lento, e appunto malinconico, abbandono.
È chiaro che tale impostazione presupponga dei vuoti: tanti avvenimenti non vengono né descritti né mostrati, ma soltanto intuiti. Questa conseguenza strutturale si è rivelata di fondamentale importanza, dato che mi ha permesso di rafforzare ulteriormente, a livello di contenuto, l’espressione di quel “non detto”, di quel “non risolto”, che lega il pro tagonista al suo passato e che rappresenta l’aspetto più autentico, più profondamente mio, di Qualcosa s’è mosso.
A chi ti sei ispirato per la creazione di questo volume? Ci sono dei punti fissi?
I miei miti di riferimento trovano radici nella cultura degli anni ’70: da Magnus a Pazienza, da Crumb a Bonvi. In generale però, pur mantenendo una mia identità stilistica riconoscibile, tendo a impostare le mie scelte grafiche in base alla storia che mi appresto a narrare. Per questo lavoro ho studiato intensamente le opere di Egon Schiele, specie la stilizzazione espressionista delle mani e la gestione arbitraria dei pieni e dei vuoti, di cui era un vero maestro. A proposito della narrazione, invece, i miei riferimenti sono principalmente letterari. Il secondo capitolo, per esempio, risente molto dell’impostazione tipica dei romanzi picareschi, in cui spesso “l’iniziazione” del protagonista alla vita è caratterizzata da un fatto sfortunato che scatena una serie di disavventure, durante le quali s’incontrano persone di varia estrazione sociale. Anche il tono ‘semiserio’, per cui una scena non esattamente comica è in grado comunque di suscitare un sorriso, è una delle principali particolarità di questo genere di romanzi. Per quanto riguarda la sceneggiatura nello specifico, credo sia stato il cinema di Martin Scorsese ad avermi maggiormente ispirato, in particolare la sua gestione del montaggio: nel mio fumetto ho frantumato molte scene, talvolta ricollegandole mediante la voce dei personaggi (balloon) o del narratore (didascalie); spesso ho assecondato la linearità della narrazione servendomi di una carrellata di vignette pressoché identiche tra loro, quasi come si trattasse di un piano sequenza; altre volte ancora invece ho interrotto il ritmo con netti flashback che irrompono ‘a gamba tesa’, funzionali a precisare qualcosa di cui ignoravamo l’accaduto.
C’è un parallelismo tra contenuti e grafica?
Sì, ogni scelta stilistica è stata coerente alla narrazione. Non volevo realizzare una storia lineare, con un inizio, uno svolgimento e una fine immediatamente comprensibili, ma volevo che risultasse piuttosto come un vecchio mosaico frammentato, ritrovato per caso e a cui chiaramente manca qualche pezzo. Come potevo evidenziare questo effetto disturbante della narrazione anche a livello stilistico? Dopo varie riflessioni ho capito che l’unico modo era creare un’incongruenza, un effetto straniante anche nel disegno. È così che ho deciso di amalgamare la fotografia al disegno,la decorazione puntigliosa alla gestualità, il pieno al vuoto, il bianco e nero al colore, la resa realistica di alcune fisionomie a una decisamente più grottesca e caricaturale.
Il libro risulta catartico? Per la tua esperienza personale cosa ha rappresentato?
Catartico non direi. O forse lo è solo in parte. Sicuramente penso che sentirsi vicino alle tematiche che si vuole narrare, avere la sensazione che ti appartengano come un privilegio rivolto solo a te, sia fondamentale per riuscire a indagarle con maggior efficacia e in modo inedito, personale, non didascalico. Nello stesso tempo devi anche esserne uscito, devi cioè aver già attuato un processo di distacco e allontanamento, in modo da garantire a te stesso una certa lucidità. Credo insomma che il segreto di una narrazione ben fatta, soprattutto se di stampo autobiografico, consista nel trovare il giusto equilibrio fra coinvolgimento emotivo e distacco consapevole. Realizzare questo fumetto ha rap presentato per me un’esperienza intensa, attraverso cui ho ricordato e per certi versi rivissuto molti momenti della mia vita, con rimpianto o con rabbia.
I temi principali del fumetto sono diversi: la migrazione, il conflitto e l’indipendenza ma anche il viaggio e la figura archetipica del padre. Anche se il libro parla di te, in realtà si rivolge a tantissime individualità che vivono situazioni simili. Pensi che il tuo libro possa portare ad identificarsi in un periodo preciso della vita?
Sì, penso che la storia di Qualcosa s’è mosso possa toccare molte individualità diverse, ma non credo che il motivo sia legato alla trattazione di un periodo preciso della vita. Certo, il volontario allontanamento da una famiglia ingombrante e la conseguente migrazione che muovono la storia del mio fumetto possono dirsi a tutti gli effetti parte di un immaginario archetipico legato soprattutto alla narrazione della giovinezza. Tuttavia credo che non sia questo il centro del mio lavoro, ma solo il suo pretesto. In un certo senso considero la giovane età del protagonista solo un caso. Non tutti iniziano ad affrontare i propri conflitti interiori e a compiere delle valutazione lucide su se stessi quando sono giovani. Alcuni ci riescono solo molto avanti negli anni, altri non ci provano mai, altri ancora non ne se danno proprio pensiero. Il personaggio della madre del protagonista, per esempio, al contrario del marito non ha mai avuto ‘il suo momento’, non è mai stata l’eroina della propria vita, non ha affrontato o risolto niente. Ingabbiata dalle catene della morale tradizionale, si troverà costretta a porsi delle domande e forse a evolvere solo dopo la separazione dal mari-to. Perciò vorrei che a risultare maggiormente condivisi dal lettore siano piuttosto i temi trasversali, slegati da ogni schema d’età, che ruotano tutti attorno al concetto di conflitto non risolto e per lo più irrisolvibile, con un genitore o un’intera generazione, con un luogo specifico o una cultura, che spinge a migrare o che impedisce qualunque tipo di spostamento. Sarei felice se il mio lavoro fosse avvertito vicino da chi nuota con tutte le proprie forze in un mare in tempesta per raggiungere il porto della tranquillità e della liberazione, che forse non esiste nemmeno.