nito di leggere “In cucina con Kafka” di Tom Gauld ormai da quasi una settimana e ancora ci penso. In realtà, a parte una tavola sulla quale è stata attirata con prepotenza la mia attenzione, quello che mi rimane travalica il libro stesso, e anche quello che c’è scritto dentro.
Mi resta il vuoto. Delle tavole. Di questo mondo. Di oggi. Mi ha lasciato un senso di estraneità e alienazione che sembra vuoto, sembra perché nella mia mente il vuoto è una distesa di nulla con una linea sotto e uno spazio sopra, quindi tecnicamente non è vuoto. Mi ha lasciato dentro lo straniamento dello straniero che si trova catapultato in un’altra realtà, la osserva, in fin dei conti ci vive dentro, eppure. Eppure tutto gli è straniero, come se ci fosse una sospensione delle emozioni.
Mi resta questa distanza, resta l’esistenzialismo, l’illusione di un movimento che in realtà è solo meccanica progressione, così come robotico diventa l’umano che non ha più il tempo, la voglia e la speranza di pensare. Allo stesso tempo, mettere un’etichetta su questo senso di vuoto stupito, affermare che è depressione, quindi un fatto quasi completamente individuale, è riduttivo.
Leggere “In cucina” mi ha ricordato alcune cose, sono arrivati questi pensieri ai quali non riuscivo a trovare un posto, poi ho ricordato: Bergson, Tempi moderni e i clown. E tutto questo ha qualcosa in comune: il senso del comico.
Il gusto per lo scarto, la battuta non forzata, è spesso frutto di associazioni attorno alle quali vengono imbastite le storie. Le associazioni possono risultare innovative ma ricadono sempre all’interno di pochi topoi narrativi – schemi narrativi che si ripetono nel tempo – (per esempio la lotta epica tra il protagonista e la sua nemesi, il viaggio dell’eroe, …). Una volta messo a nudo lo schema, si capisce che qualsiasi libertà si prenda, ricade sempre entro il sistema stesso, che serve però anche come cornice culturale che permette di comunicare. Per cui alla fine anche ciò che sembra libero da costrizioni, la fantasia delle associazioni, ricade in un meccanismo dialettico.
Questa meccanicità di Tom Gauld sconfina nell’assurdo, meglio ancora, nel surreale, in un universo di possibilità che sarebbero possibili ma assolutamente improbabili nel sistema della realtà, un po’ come se si usasse il metodo scientifico per provare l’esistenza della coscienza. L’alternanza tra meccanicità e momenti di assoluta perdizione nel vuoto dell’animo umano rendono universale Gauld, universale almeno per le persone disilluse.
Dunque un movimento meccanico che si sviluppa per paradossi e che asfalta il presente, lo fa scoppiare mettendolo in contrasto con tutte le altre possibilità, nascondendo anche un giudizio di merito, un giudizio politico (nel senso etimologico del termine).
Secondo Bergson il senso del comico scaturisce dalla ripetizione meccanica, un movimento che trancia il corso fluido e continuo della vita tracciando una cesura, che può scartare in qualunque direzione e prendere derive di difficile controllo. Per provocare una risata, è necessario però sentirsi immuni dalle implicazioni emotive e sentimentali della situazione comica. Se si partecipasse con empatia alla scena della persona che scivola su una buccia di banana nessuno riderebbe, è l’indifferenza che produce lo scollamento per il comico. Ma è una indifferenza sadica quella del riso, perché in fondo tutti sappiamo che la persona che cade si è fatta in qualche modo male, in pratica sappiamo quali sono le regole nel nostro sistema culturale e queste ci permettono sia di ridere insieme che di ridere di qualcosa.
In Gauld però il riso non è fine a se stesso e non c’è neppure un senso del tragico preponderante, è una vera tragicommedia, è una bufera nel deserto che forse genera un battito di farfalla da qualche altra parte ma che noi non vedremo mai.
Genera l’illusione della comprensione di “qualcosa” di importante che però non si riesce a mettere a fuoco per poi lasciare un po’ sconfortati, un po’ pensierosi, un po’ divertiti. Come quando torni a casa dal circo e inizi a pensare ai poveri animali in gabbia, al malumore dell’acrobata che sta sotto tutti, alla tristezza del clown.
E questa è letteratura. Quella capacità di mettere assieme fantasia e realtà bruta, filosofia e fumetto, antropologia e marketing (ah, già, troverete tanti riferimenti su cosa significa essere un autore oggi). Quella capacità che ti fa pensare e ti diverte. Ma non dà risposte.